SYSTEMS

Saturday 11. April 2020

Slow Motion – Luca Beatrice 

In diverse occasioni mi è capitato di osservare come l’inserimento del tempo (o una riflessione su di esso) sia il primo elemento foriero di concettualità dell’opera d’arte. Spesso addirittura è proprio il tempo a stabilire tale cittadinanza, a farci scegliere un lavoro piuttosto che un altro, a liberarci da letture formali o iconologiche. Senza il tempo cosa sarebbero, ad esempio, i Date Paintings di On Kawara? Forse semplici sequenze numeriche. E gli orizzonti sul mare di Hiroshi Sugimoto? Soltanto la ripetizione insistita di paesaggi colti tutti dalla medesima inquadratura. Paradigmatico è, ancor prima, il caso della Lampada annuale di Alighiero Boetti (1966): in apparenza una semplice scultura contenente una sorgente luminosa, progettata per accendersi inaspettatamente una volta all’anno per undici secondi, alludendo così – scrisse Boetti “agli innumerevoli avvenimenti che avvengono senza la nostra partecipazione e conoscenza”. Non potendo noi restare in attesa dell’evento, ci troveremo costretti ad assumere questo principio sulla fiducia senza poter dire di aver visto accadere alcunché, cosa che contraddirebbe in pieno la teoria dell’arte basata appunto sul visibile. Eppure quante opere contemporanee sono costruite proprio su tale discrasia, da Sleep o Empire di Andy Warhol (dove il tempo del cinema coincide con quello reale), a 24 Hour Psycho di Douglas Gordon (dove la manipolazione scivola nel parossismo). Noi sappiamo che queste opere esistono eppure nessuno di noi le ha mai viste – chi resisterebbe sei o otto ore davanti uno schermo a fissare la sagoma del più alto grattacielo di New York o un uomo che dorme? Chi potrebbe prendersi una “giornata di ferie” per assistere alla dilatazione del famoso film di Hitchcock? In verità esistono almeno due forme di percezione che riguardano le opere d’arte contemporanea. Davanti a una foto, un quadro, una scultura, un disegno, un’installazione non interattiva siamo noi a decidere per quanto tempo dovremmo (o potremmo) rimanervi di fronte, se osservare con minuzia i particolari oppure limitarci a un colpo d’occhio generico, stabilendo altresì se una fermata più lunga può consentire una lettura più attenta dell’opera stessa. Se invece ci troviamo in presenza di un’opera in movimento, almeno teoricamente dovrebbe esserci un tempo esatto di fruizione, anche se raramente viene rispettato. Può succedere, ma è raro, che uno spettatore cinematografico abbandoni il film a metà (a meno che non sia bruttissimo) o che entri in sala a spettacolo iniziato. Allo stesso modo un lettore serio quasi sempre finisce il libro e non ne salta intere parti per arrivare più in fretta alla fine. Queste, infatti, sono opere diacroniche che prevedono uno svolgimento temporale, esattamente come i video, la videoarte o i film d’artista che in percentuale occupano uno spazio sempre più rilevante nelle mostre internazionali. Un video ha infatti una sua durata, anche se non corrisponde necessariamente a uno sviluppo logico-narrativo: eppure quante di queste opere abbiamo visto realmente dall’inizio alla fine? Quanti spettatori medi si soffermano appena qualche minuto (qualche secondo), soprattutto quando l’autore non è conosciutissimo? E se veramente volessimo “vedere tutto” quanto tempo ci vorrebbe allora per dire di “aver visto” una mostra per intero? (Daniel Soutif, che al Tempo ha dedicato un importante progetto curatoriale, mi ha raccontato di averci messo quattro giorni interi a visitare l’ultima Documenta, non tralasciando neanche un video, e forse quattro giorni sono davvero troppi). La mia interpretazione di Systems, il nuovo ciclo su cui Davide Coltro lavora da oltre un anno con una messa a punto sempre più rigorosa, parte proprio da queste considerazioni. Come trasformare la fruizione tradizionale “sincronica” di un’opera a parete o comunque statica, in una successiva fruizione “diacronica” che preveda lo sfondamento temporale, l’esperienza dell’attraversamento? Di fatto noi ci troviamo di fronte a una cornice, ciò che del quadro costituisce il limite fisico oltre il quale c’è la realtà e aldifuori della quale non c’è più l’arte. Tale cornice però non delimita un’immagine fissa, la sola e immutabile nel tempo come avviene ad esempio nella pittura – per cui si dovrà dire che l’immagine bidimensionale è indelebile e irreversibile, come un tatuaggio – ma si propone da ricettore in grado di aggiornarsi ricevendo altre opere che Coltro invia dalla sua postazione digitale in un momento prestabilito. Quale sarà allora la posizione corretta di fronte a questo nuovo oggetto artistico – tecnologico? Supponiamo di essere usciti dalla galleria a una data ora avendo lasciato una certa immagine sul monitor e, rientrandovi, di averne trovata un’altra: è come se qualcuno, in nostra assenza, avesse cambiato il “quadro”, niente di strano, niente di male. Ma ciò che è più interessante sapere è che a un certo momento l’immagine B avrà preso il posto dell’immagine A come in una dissolvenza cinematografica. L’essere stati presenti a questo evento equivale all’aver assistito all’epifania dell’opera, ma come nel caso della Lampada annuale noi non possiamo sapere quando questo avverrà oppure se è già accaduto e da quanto tempo. Ci troviamo pertanto in quella stessa condizione di incertezza che si verifica in attesa alla fermata dell’autobus: è appena passato oppure no? Quanto dovremo aspettare? Varrà la pena accendere una sigaretta? I cosiddetti reality show, i programmi che hanno contraddistinto questo inizio televisivo di terzo millennio, devono il loro successo a un analogo meccanismo di attesa vanificata: è inevitabile che qualcosa accadrà, ma non sappiamo né cosa né quando, e vista l’impossibilità, nonostante il satellite, di vivere con i protagonisti del Grande Fratello o dell’isola dei Famosi 24 ore su 24 è molto probabile che ben pochi si troveranno con la tv accesa nel momento in cui la situazione cambierà di stato (una scena di sesso, un forte litigio, un momento di disperazione), eventi che ci verranno raccontati in uno speciale riassunto del giorno dopo senza però potersi valere dell’effetto “tempo reale”. Ed è proprio il transito, la consapevolezza del passaggio, a costituire il fulcro concettuale dell’opera di Coltro. Si torna così un’altra volta a Boetti, a un’altra opera giovanile, il Contatore (1967) che voleva fermare l’esatto momento in cui il vecchio tachimetro dell’auto segnava il passaggio da un centinaio all’altro (da 799 a 800, da 999 a 1000 e così via) e che dall’avvento del digitale si può appena catturare per una minima frazione di secondo mentre, paradossalmente, spegnendo l’auto proprio in quel preciso istante l’immagine del contatore tra i due numeri si sarebbe potuta bloccare per sempre. Per Davide Coltro la questione sta ancora oltre. Se non esiste un tempo esatto di permanenza davanti a un’opera video che non evolve in senso narrativo, non utilizza il loop e dove in sostanza non accade nulla, non essendo lo spettatore avvisato che prima o poi l’immagine sul monitor cambierà (i Systems della mostra sono tarati su mutazioni ogni 5 o 10 minuti unicamente a scopo dimostrativo, quando l’opera troverà la sua collocazione il flusso sarà più lento e soprattutto non regolare), c’è forse un tempo “tecnico” di fruizione per l’immagine bidimensionale? La seconda parte del progetto di Coltro si chiama Medium Color Landscapes, una serie di scatti fotografici sul tema del paesaggio di norma riferibili al territorio d’indagine in cui è nato il lavoro. Il punto di vista dell’artista veronese su un genere così storicamente codificato nella storia della pittura e della fotografia non riguarda dunque l’atto finale -la contemplazione del paesaggio- ma la costruzione che avrà portato a quella -solo quella- immagine, la cui attesa può essere lunga, comunque non quantificabile perché tra un’immagine e l’altra c’è la vita vera con i suoi imprevisti e le sue interruzioni. In fondo ciò che noi vediamo non è che una sfumatura possibile, magari accidentale, di una costruzione artistica ben più complessa e articolata che però coincide con l’esistenza. Con Coltro ti porti via un intero tempo altro dove tutto è più rallentato e dove il tempo che abitudinariamente mettiamo a disposizione per la lettura di un’opera d’arte è poco, troppo poco. 

On many an occasion I happened to remark how time – or a reflection on time – in a work of art is the prime generator of conceptual meaning. Very often, it is time itself that determines this citizenship, makes us opt for one work or another, freeing us from the influence of formai or iconologic interpretations. For instance, what would be left of On Kawara’s Date Paintings without time? Maybe a mere numeric sequence. And what about Hiroshi Sugimoto’s sea horizons? Nothing but an obsessive repetition of landscapes caught from the same angle. But an even more emblematic case is that of Alighiero Boetti’s Lampada annuale (1966), apparently a simple sculpture containing a light source, designed to light up unexpectedly once a year for eleven seconds. It is an allusion, as Boetti wrote, “to the innumerable events that happen without our presence or awareness”. Since we cannot wait for the event, we are forced to believe it by faith, without being able to teli that we saw anything happen – and this is a radical contradiction of art theory itself, which is based on visibility. And yet how many contemporary works are built precisely on this kind of imbalance, from Sleep and Empire by Andy Warhol (where cinematic time coincides with real time) to 24 Hour Psycho by Douglas Gordon (where manipulation degenerates into paroxysm). We know these works exist, yet none of us has ever seen them – who would endure standing six to eight hours in front of a screen, fixing the silhouette of New York’s highest skyscraper or of a sleeping man? Who could ever ‘take a day out’ only to watch Hitchcock’s famous film being expanded and dilated? There are really at least two modes of perception pertaining to contemporary art works. Looking at a photo, a picture, a sculpture, a drawing. a non-interactive installation, we decide how long we should (or could) stand in front of it, whether to carefully observe its smallest details or simply cast a generic look upon it, we decide whether it’s worth pausing longer to read the work itself more carefully. If, on the other hand, we find ourselves looking at a moving work, we should have, at least theoretically, a definite time to enjoy the work, although we rarely stick to it. It may happen – but only occasionally – that a spectator leaves half-way through a movie (if the movie is really bad) or enters the theater when the show has already begun. Similarly, a serious reader almost always finishes the book he’s reading and does not strip entire sections of it in order to get to the end more quickly. These are, indeed, diachronic works that inevitably unfold in time, just like videos, video art or artists’ films, which are taking up an ever increasing percentage of space within international exhibitions. A video has a definite length, although this does not necessarily entail a Iogic or narrative development yet how many of these works have we really seen from beginning to end? How many average spectators pause but a few minutes -or even seconds-, especially when the author is not among the best known? And if we really wanted to “see it all”, how long would it take us to claim that we “have seen” the whole exhibition? (Daniel Soutif, a curator who devoted an important project to Time, told me that he spent four full days to visit the Iast Documenta, not leaving out a single video – and maybe four days are really too much). My interpretation of Systems, the new series Davide Coltro has been working on for more than a year now, constantly refining it, starts from the above reflections. How can we transform the traditional, “synchronic” fruition of a wall work, or in general a static work, into a successive, “diachronic” fruition that entails breaking through time, the experience of going through a work? What we are looking at is, in fact, a frame, i.e. that which constitutes the physical limit – beyond this limit there is reality, and outside reality art no longer exists. Such a frame, however, does not delimit a fixed image, alone and immutable through time, as in the case of, for instance, painting – so that we have to accept the two-dimensional image as indelible and irreversible, like a tattoo-, but offers itself as an updatable receptor, that can receive other works sent by Coltro from his digital workstation at fixed times. What then will be the right attitude in front of this new technologically and artistically hybrid object? Let’s suppose we have left the gallery at a certain time, leaving a certain image on the screen and finding another as we come back – it’s as if someone had changed the picture while we were away – nothing strange, nothing wrong. But what is more interesting to know is that, at a certain time, image B has replaced image A as in a cinematic fade out. To have witnessed this event is like experiencing the work’s epiphany but, as in the case of the Lampada annuale, we cannot know when this will happen, or if it has already happened, and how long ago. Therefore, we find ourselves in the same condition of uncertainty as waiting at the bus stop – has the bus just passed or not? How long will we have to wait? Is it worth lighting a cigarette? The socalled reality shows, the programs that have marked the beginning of the third millennium on television, owe their success to a similar mechanism of frustrated waiting – it is inevitable that something will happen, but we do not know what nor when – and, given the impossibility, despite the continuous satellite broadcasting, of living 24/7 with the protagonists of such shows as II Grande Fratello or L’Isola dei Famosi, it is very likely that very few people will happen to have their TV switched on when the situation changes – a sex scene, a violent argument, a moment of desperation. These events will be told the following day in a special summary, but will not be able to enjoy the ‘real time’ effect. And it is precisely this fleetingness, the awareness of transition that makes up the conceptual core of Coltro’s work. Thus we once again come back to Boetti, to another of his early works, the Contatore (1967), whose aim was to stop at the exact moment when the old car speedometer marked the passage from one hundred to another (e.g. from 799 to 800, from 999 to 1000 and so on). Since the beginning of the digital era, this moment can be captured for a fraction of a second whereas, paradoxically, if we turned off the car in that exact same moment, the image of the counter between the two numbers could be fixed forever. For Davide Coltro the question lies even further beyond. If no exact stopping time exists in front of a video work that does not evolve in a narrative sense nor uses loops, a work where, in short, nothing happens, because the spectator has not been warned that sooner or later the image on the screen will change (the Systems in this exhibition are timed to change every 5 or 10 minutes only as a demonstration, but as soon as the work finds its definitive piace the flow will be slower and above all irregular), can there really be a ‘technical’ time to enjoy a two-dimensional) image? The second part of Coltro’s project is entitled Medium Color Landscapes, a series of snapshots on the theme of the landscape, which can generally be referred to the inquiry field that produced the work. Therefore, the point of view of our Veronese artist on such a highly codified genre in the history of painting and photography is not related to the final act -the contemplation of the landscape – but rather to the construction that led to that specific image, which could entail a long, or anyway not measurable, waiting, because real life slips between one image and another, with its unpredictability and interruptions. After all, what we see is but a possible, even accidental, nuance of an artistically far more complex and articulated construction that coincides with existence. With Coltro, you talee away with you an entirely ‘other’ time, where everything goes at a slower pace and where the amount of time we usually devote to the reading of an art work turns out to be fairly small, too small. 

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Macchine Ribelli – Maurizio Sciaccaluga 

Quelle di Davide Coltro sono macchine ribelli. Magari non alla Terminator, forse non alla Ballard – nel senso che non si arriva allo scontro fisico creatura vs. creatore, non prende campo una rivoluzione cruenta del metallo contro la carne – ma di certo non mancano affinità e convergenze tra i suoi System e l’immaginario tecnoapocalittico di Aldous Huxley e del Kurt Vonnegut di Piano meccanico, tra il suo ciclo dedicato al Colore medio e le inquietudini elettroniche di H.G. Wells e Michel Houellebecq. Le opere dell’artista veronese sono solo un primo, piccolissimo passo verso una situazione come quella dei dieci Controllori ipotizzata da Huxley in Il mondo nuovo, ma mettono talmente a soqquadro la concezione dell’oggetto d’arte e il rapporto tra artista e collezionista che non è possibile fuggire da una lettura fantapolitica e socio-tecnologica del lavoro e della ricerca. Coltro non è altri che il Grande controllore Mustapha Mond: sembra sapere che “la libertà nuoce alla felicità”, che il motto giusto possa essere solo “comunità, identità, stabilità”, che l’ordine del sistema sia garantito esclusivamente da una sorveglianza rigorosa sui numeri e sulle tipologie. Dunque, sceglie per sé e per tutti, soprattutto per chi non sarebbe in grado di farlo al meglio. Allo spettatore, e ancor più al collezionista, nega un diritto acquisito da tempo, probabilmente ingiusto ma oramai conquistato usu capione: quello di sentirsi, insieme all’autore, depositarlo del senso dell’opera, proprietario e testimone del suo significato. L’artista, con la serie dei System, decide che la sorpresa e l’inaspettato diventano un marchio di fabbrica, della sua fabbrica: non più un quadro o una fotografia da esporre e rivedere di continuo, da possedere, ma uno schermo dove, inviate via etere, scorrono immagini selezionate lontano, messe in successione secondo una logica impossibile da decodificare al momento. L’autore, cedendo l’opera, non cede più i suoi diritti su di essa: continua a controllarla, a mutarla, a variarne intensità, colore e tema, e chi la guarda – in galleria o in casa – è comunque sempre colto alle spalle, preso alla sprovvista. In pratica, si sceglie di osservare o acquistare un punto interrogativo, un effetto sorpresa che non si potrà mai conoscere a fondo. Al cospetto della ricerca più attuale di Coltro, viene a cadere quella strana sicurezza che sorregge gli individui quando sono al sicuro nelle proprie case, o a loro agio in territori protetti quali quelli delle gallerie: circondati da cose conosciute, amate, scelte, desiderate, si sentono al riparo dai colpi di scena del destino, da sgradevoli o troppo gradevoli (ugualmente sconvolgenti) novità. Ebbene, i lavori dell’artista mettono in crisi tutto questo: case e gallerie cambiano scenari e panorami senza possibilità di controllo, proprio come il mondo che li circonda, e in un’arte oggi progettata, stu-diata, pesata, analizzata entra in gioco la paura. Non l’orrore, ma il timore di ciò che non si conosce, quel sentimento sgradevole che prende ogni qual volta si stia per arrivare in un posto che non si conosce affatto. Il System è una macchina ribelle, appunto, destinata a creare aspettativa, attesa, inquietudine: mentre qualunque altro oggetto d’arte è l’appagamento del desiderio d’una forma, d’un concetto, l’apparecchio in questione è atto a cortocircuitare una tensione contínua, mentre qualunque altro oggetto d’arte è la risposta a una domanda, questo è una domanda che non chiede e non attende risposte. L’uomo che l’ha progettato e continua a controllarlo a distanza non lo ha sotto gli occhi, resta in dubbio se obbedisca o meno ai suoi comandi, se non cominci in fondo a vivere di vita propria, chi ce l’ha sotto gli occhi non sa cosa possa fare e mostrare da un momento all’altro, non sa cosa aspettarsi dal suo fido compagno di vita. Come pure nella letteratura di Huxley, nella ricerca artistica di Coltro è centrale la riflessione sul rapporto tra emozione soggettiva e realtà oggettiva, tra apparenza estetica (conseguenza) e ragione scientifica (causa). Pur convivendo nello stesso prodotto, nel medesimo oggetto, i diversi aspetti della questione non trovano mai un vero punto d’incontro, non si sposano certo, e nemmeno si sopportano. La scienza e il calcolo controllano l’emozione (primo paradosso) – basti pensare ai paesaggi di Colore medio, realizzati calibrando un unico tono di viraggio sull’intera immagine, tono risultante dalla combinazione matematica di tutte le componenti cromatiche presenti nel pezzo – mentre il risultato estetico deve dare infine ragione o torto alla formula scientifica (secondo paradosso). Per quanto giuste (se lo sono), per quanto intelligenti, le macchine dell’artista sono e restano ribelli: azionate dall’uomo, non gli si rivoltano contro, ma comunque si dirigono dove loro, solo loro, scelgono di andare. Nonostante non sembrino aggressive, nonostante abbiano dominanti affascinanti o tranquillizzanti – ma si tratta di una tranquillità tutta ancora da dimostrare, imposta e costretta dall’alto – le opere di Davide Coltro sono invece pronte a colpire, a stupire, a graffiare. Con la stupefacente semplicità di quei misteri, di quelle sorprese, racchiusi nella quotidianità. Non sono soltanto le immagini future – ancora sconosciute – a tendere trappole a chi ha scelto di acquistare e di guardare al buio, arrendendosi a priori al Grande controllore, non sono solo i colori reali cancellati e ricoperti – violentati – dal tono medio a lanciare nell’aria il tono interrogativo di un punto di domanda (dove?); il mistero – alla CSI o alla X-File – è nel silenzio irreale dei panorami, nel vuoto assoluto di rumori in tutti gli orizzonti raffigurati. Il mistero non è in quello che c’è nei lavori, ma in quello che manca: mancano i segni della vita che scorre, manca il frastuono della gioia e del dramma, manca il ritmo dei cuori pulsanti. Queste scene del crimine, questi scenari futuri, questi spot pensati da un grande fratello, questi spaccati da mondi lontani non hanno colonna sonora: scorrono senza fiatare, si susseguono senza avvertire, accelerano senza aumentare di giri. Qualcosa, dunque, non quadra: la vita fa rumore, fa un rumore tremendo e assordante. È il sogno a procedere silenzioso: che qualcuno stia rubando l’immaginazione e gli incubi dell’artista?

Rebellius Machines – Maurizio Sciaccaluga 

Coltro’s machines are rebellious. Perhaps not like Terminator’s, maybe not like Ballard’s – in the sense that there is no physical fighting creature vs. creature, no bloody revolution of metal against flesh – but, of course, affinities and confluences between his systems and the technoapocalyptic imaginary of Aldous Huxley and Kurt Vonnegut’s Player Piano, between his cycle dedicated to Medium Colour and H.G. Wells and Michel Houellebecq’s electronic restlessness are not missing. The artist’s works are only the first small step towards a situation like that of the ten Controllers assumed by Huxley in Brave New World, but they turn the conception of the artistic object and the artist and collector’s relation so upside-down that you cannot escape from a phantapolitical and sociotechnological reading of the work and research. Coltro is nothing but the Great Controller Mustapha Mond: he seems to know that “freedom hurts happiness”, the right motto being “community, identity, stability”, the system order being guaranteed only by a strict surveillance on numbers and typologies. So he makes a choice for himself and everybody, mainly for those who are not able to do their best. He denies the spectator and especially the collector a right obtained long ago, probably unfair but conquered usucaption: that of feeling together with the artist like repository of the work’s sense, proprietary and testimony of its meaning. The artist, with its System series, decides that the surprise and the unexpected should become the trademark of his factory: not more a painting or a picture to be exhibited and seen continuously but a screen, where images, selected far away and transmitted via ether, slide according to a logic that cannot be decoded at first. The author, delivering its work, does not make over his rights on it: he continues to monitor it. transform it, and vary its intensity, colour and theme and those who are looking at it, any time at home or in the art gallery. Is always caught unprepared and off balance. In practise, you decide to observe or buy a question mark, a surprise effect, which you will never know deeply. In front of Coltro’s actual research you are deprived of that strange safety feeling sustaining individuals when they are safe at home, or comfortable in protected territories like art galleries: surrounded by known, loved. selected, desired objects, they feel protected against the destiny’s “coupe de theater”, against unpleasant or overpleasant (nevertheless astonishing) novelty. The artist’s works undermine all this: homes and galleries change scenario and landscapes without control like in the surrounding world, and in a today’s planned, studied, weighted, analyzed art, fear comes into play. Not horror but fear of the unknown, that unpleasant feeling arising every time we are arriving in an unknown place. The System is a rebellious machine, destined to create expectation, waiting, restlessness: while any art object represents the satisfaction of a shape, concept desire, the appliance under question is short-circuiting a continuous tension while any other art object is the answer to a question, this is a question which is not asking or waiting for answers. The man who conceived it and keeps on remote controlling it, doesn’t have it under his eyes so he cannot be sure of the response to his commands, whether it starts living his own life; who stands before it doesn’t know what it could do and show any moment, he doesn’t know what to expect from his faithful life companion. Like in Huxley’s literature, even in Coltro’s artistic research is the reflection on subjective emotion and objective reality, between aesthetical appearance (consequence) and scientific knowledge (cause) central. Although they live together in the same product, the same object, the different aspects of the question do not find a real meeting point, they do not match and they cannot stand one another. Science and calculation control emotion (first paradox) – just think to Medium colour landscapes, realized by calibrating a single toning on the whole image, a tone resulting from the mathematical combination of all the chromatic components in the piece – while the aesthetic result has to agree or disagree with the scientific formula (second paradox). However right (if they are right), however intelligent, the artist’s machines are and remain rebellious: powered by man, they do not turn against him but they go where they, only they, choose. Despite not being aggressive, despite having fascinating and reassuring dorminants – but it’s a peace which hasn’t been proved yet, imposed and constricted from upon – Davide Coltro’s works are ready to strike, to astonish, to scratch. With the stunning simplicity of those mysteries, surprises, hidden in everydays life. Not only the future images – still unknown – are setting traps for those who have chosen to purchase and look at the dark, surrendering to the Great Controller, not only the real colours cancelled and covered – abused – by the medium tone who arise a question mark (where?); the mystery like CSI or X-File is in the unreal silence of landscapes, in the absolute emptiness of sounds in all the depicted horizons. Mystery is not inside the works but in what is missing: signs of life are missing, the noise of happiness and drama is missing, and the rhythm of beating hearths is missing. These crime scenes, these future scenarios, these spots conceived by the Big Brother, these cross-sections of foreign lands do not have a soundtrack: they just pass without a word, they follow one another without warning, they accelerate without reving up. Something is, therefore, not convincing: life is noisy, is tremendously and deafening noisy. The dream continues silently: is somebody stealing the artist’s imagination or nightmares? 

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Note progettuali – Davide Coltro

Con la parola “SYSTEMS” è definito un progetto di arte visiva digitale che si avvale di varie tecnologie per mettere in connessione l’artista con il fruitore. L’elemento innovativo che questo progetto ha generato è stato per ora definito iperframe (ipercornice) e cioè una cornice tecnologica in grado di aggiornarsi ricevendo le nuove opere che l’artista invia dal suo studio digitale. Un nuovo media (o la spontanea maturazione del quadro tradizionale) che rivoluziona creazione e fruizione dell’arte anche in riferimento al mondo informatico, da cui il progetto trae le sue peculiarità. Si può parlare dell’invenzione di una nuova periferica e cioè di un dispositivo che si appropria dello status di quadro a parete quanto della funzione estetico-visiva che prima gli era negata in quanto considerato solo strumento tecnico. L’artista deve necessariamente modificare il suo iter progettuale e creativo, ora destinato alla trasmissione e diffusione di opere non più materiali, bensì costituite da un insieme di dati binari che finiranno per ricrearla a distanza con una fedeltà assoluta. Questo significa che attraverso la riproducibilità, tanto deprecata da Benjamin in poi, l’arte creata digitalmente gode di uno statuto di invulnerabilità che garantisce e garantirà la sua sopravvivenza sia nel tempo che nello spazio. Le icone digitali che animano gli iperframe, in questa prima serie di mostre, appartengono al genere classico del paesaggio. Questo soggetto, nello sviluppo concettuale della pittura e del quadro, è usato come finestra sul mondo, espediente in grado di portare al virtuosismo tutte le tecniche prospettiche conosciute e raffinate dal rinascimento in poi, tentando con mezzi nuovi di porre lo spettatore in relazione ad una realtà che oggi potremmo definire un mondo virtuale oltre la tela. In questi paesaggi, l’accento non è necessariamente posto sulla qualità dell’impianto fotografico, sebbene questi landscapes siano contemporanei in quanto mediati da agenti devianti quali la velocità, la giustapposizione di un filtro come un finestrino, un oblò o altri ostacoli che simboleggiano l’impossibilità dell’uomo contemporaneo di avere un rapporto diretto con la visione di natura. Nonostante queste precisazioni, gli scatti generatori di queste opere sono comunque di stampo classico e la loro peculiarità risiede sull’operazione di trasformazione dell’immagine applicando il concetto di colore medio, ottenuto vivendo in prima persona la rivoluzione dell’iperframe che spinge ad esplorare i fattori distintivi dell’arte digitale. Questo valore, ottenibile solo rispettando completamente il ciclo digitale (dalla foto alla stampa o trasmissione) di creazione dell’opera, rappresenta una pura astrazione in termini di luce e colore. Quindi, proprio questo valore astratto-estratto dalla realtà fotografata, diventa una nuova pelle da applicare allo scheletro dell’ immagine generata. Lavorate con gli accorgimenti e le possibilità incontenibili della pittura digitale, queste foto di paesaggi possono testimoniare un’operazione che non si discosta mai dalle sue radici prettamente pittoriche. 

Planning notes – Davide Coltro

The word”System” defines a projects of visual digital art that avails itself of various technologies in order to create a link between artist and consumer. The innovative element that originates from this project is temporarily called “iperframed” indicates a technological frame able to be renewed , receiving the new works that the artist send from his digital studio. A new media (or the spontaneous ripening of the traditional painting) that revolutionizes creation and consuming of art with reference to the computational world from which this projects takes its distinctiveness .We can define it as the invention of a new device that takes possession of the status of a painting regarding its function aesthetical-visual function that previously was denied because of it was regarded only as technological tool. The artist must necessarily modify its planning and inventive course because it is now intended for the transmission and diffusion of works that aren’t anymore material but formed by the whole of binary datum that will end by recreating it longdistance with an absolute fidelity. This is to signify that through reproducibility, so disapproved since Benjamin, the art created digitally enjoy a status of invulnerability able to guarantee now and in the future its survival both in time and space. The digital icons that give life to the “iperframe” in this series of exhibitions belong to the classical genre of landscapes. This subject, in the conceptual development of painting and pictures, is used as if it was a window overlooking the world, device that enable to bring to virtuosity all the known techniques in perspective that are refined since Renaissance, trying with new ways to enable the audience to be connected with a reality that we could now call a virtual world beyond the canvas. Inside these landscapes the accent is not necessarily put on the quality of the photographic installa-tion even though these landscapes are contemporary because mediated by deviant agents such as speed, the justaposition of a filter such as a car window, or a porthole or other obstacles that symbolize the impossibility of the contemporary man to have a direct link with the vision of Nature. Despite these precise statements, the clicks generative of these works are those of classical mould and their peculiarity resides in the operation of transfor-ming the image by applying the concept of average obtained by living as subject the revolution of “iperframe” that push in order to explore the distinctive factors of digital art. This value, obtained only by respecting completely the digital cycle (from taking the picture to print it or transmitting) of crea-ting the work, rappresents a pure abstraction in terms of light and colour. So this value abstract and taken from the photographic reality, becomes a new skin to put on the skeleton of the image generated. These photos, manipu-lated with the skills and infinite possibilites of digital painting,can testify an operation that never goes too far from its purely pictorial roots. 

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Cento Tazze di The alla Menta * – Ivan Quaroni

Un volto rinascimentale innestato sul tronco di Ben Grimm dei Fantastici 4. Fu questa l’impressione che ebbi una piovosa giornata d’inverno del 2002, quando per la prima volta incontrai Davide Coltro durante l’inaugurazione di una mostra di Martin Malhoney. Dopo quel giorno, iniziò la lenta danza della nostra amicizia, un miscuglio di salamelecchi, schiette confessioni da taverna e, qua e là, qualche scherzoso colpo di fioretto. A Milano, la città dove entrambi viviamo e lavoriamo, lo scenario delle nostre conversazioni sull’arte, il cinema, la letteratura e il fumetto – con qualche fugace, ma saputa incursione nei territori dello spirito – variava dalla tavola imbandita di qualche ristorante sui navigli alle chiassose e improbabili osterie (e persino latterie) dove saltuariamente si diletta di condurmi, insieme a qualche malcapitato artista. Le nostre discussioni, innaffiate da abbondanti dosi di gassosa (da parte sua) e di caffè (da parte mia), erano e sono tuttora un allegro divertissement, una sorta di cabaret mistico, a metà tra la maieutica socratica e la disquisizione dotta, tra la romantica reverie e lo schiamazzo da bassifondi. Dei suoi lavori mi erano piaciuti subito i Misteri, per quella capacità, tutta platonica, di dare forma e corpo a un pensiero, mescolando suggestioni pittoriche e tecniche digitali. Neí Misteri, che furono la cagione del nostro incontro in seguito ad una mia recensione su Flash Art, Coltro era riuscito a dire quello che altri, da tempo, preferivano ignorare. E cioè che l’uomo è transitorio, immerso nel flusso eracliteo dell’impermanenza, e allo stesso tempo immortale, come le forme ideali che baluginano nella sua anima antica. I Viventi, quei ritratti quasi fiamminghi ottenuti fotocopiando letteralmente i volti di straniti avventori, quelle trappole per l’anima cui ebbi la ventura di sfuggire come un indigeno dinanzi a una macchina fotografica, altro non erano che la controparte terrestre dei Misteri. Eppure la sostanza rimaneva invariata. Nei Misteri, Coltro estraeva un frammento della realtà per riportarlo alla sua origine trascendente, mentre nei Viventi, documentava la coesistenza del volto ideale nella fisionomia del quotidiano. Avevo a lungo meditato sulla natura anfibia dell’uomo, sospesa tra terra e cielo. 

L’Incontro tra me e Davide, se mai fu casuale, avvenne sulle coordinate di questo pensiero_ Col tempo, come un elastico, la nostra amicizia è ruotata attorno a questo punto fisso, flettendosi e distanziandosi dal centro secondo necessità Le sue curiose e agitate esperienze di vita, me lo hanno fatto apprezzare per quel tanto di geniale e di furbesco, di pragmatico e di ideale, di saggio e di mefistofelico che compone la sua multiforme personalità. Coltro – chissà quante vite fa -è stato un inventore, uno di quelli che brevettava strani e incomprensibili meccanismi d’indubbia utilità. Quando decise di diventare artista – sì, lui è di quei che possono decidere cose del genere! – si portò appresso le sue potenzialità d’inventore, insieme a molte altre capacità misteriose. Senza dubbio, questa sua attitudine è all’origine dei suoi Systems, quei quadri elettronici che non solo ripercorrono il millenario cammino della pittura adeguandolo alle potenzialità della nostra era digitale, ma che prefigurano anche nuove forme di contemplazione. Il perfetto equilibrio tra arte e tecnica è una delle peculiarità della ricerca di Coltro. sempre intento a lavorare su più fronti, a precorrere le mosse future come un giocatore di scacchi, con un occhio alla scacchiera reale e uno a quella immaginaria. Per la verità, immagino Davide Coltro come uno scaltro giocatore di Backgammon, mollemente abbandonato sulla panca di qualche caffè turco, mentre sorbisce la sua centesima tazza di thè alla menta, intento a fingere una sonnolenta distrazione, per poi balzare improvvisamente sull’avversario con la velocità di una tigre. Ecco, me lo immagino mentre schiaccia uno dei suoi proverbiali pisolini – solo dieci minuti per recuperare le forze e tornare più fresco di prima – anticipando nel sonno le sue prossime visioni. Più volte l’ho sentito descrivere, con coloriture da trailer cinematografico, l’idea germinale di una possibile opera, immaginarne i potenziali sviluppi, decantarne la meraviglia con estatico trasporto. Tra un System e un Mistero, tra un Landscape e un Vivente, può darsi anche che Davide si conceda un breve sonno ristoratore pieno di immaginifiche e ambiziose visioni. Lasciatelo sognare. Sono calo che molte di quelle visioni diventeranno presto realtà! 

* estratto dai “Taccuini di Studio” 

A Thousand Mint Tea Cups * – Ivan Quaroni

A face belonging to the Renaissance on top of the body of Ben Grimm from Fabolous 4. This was my first impression when on a rainy winter day in 2002 i saw for the first time Davide Coltro during the inauguration of an exhibition of Martin Malhoney. Since that day begun the slow dance of our friendship. a mixing of bowing and scraping, sincere confessions belonging to a tavern and, here and there,a joking stroke of foil. In Milan, the town where we both live and work the scenery of our conversations on art, cinema, literature and comics- with a rare but knowledgeable visit to the land of the soul-varied from the laid tables in some restaurant on Navigli to the noisy and improbable inn and even dairis where occasionally he delights in taking me together with some unfortunate artists. Our discussion, washed down with a large amount of gassosa (on his side)and coffee(on my part) were and still are,a merry divertissement, a kind of mystical cabaret, half a way through maieutics of socratic memory and learned discourses on one side and romantic reverie and din from slums on the other. From his work i immediately liked Misteri because of their ability, on the whole platonic, of forming thought mixing pictorial suggestions to digital techniques. In Misteri that was the cause of our meeting because of a piece that i wrote on Flash Art Coltro was able to say something that others would rather ignore. That the man is transitory ,plunged in the Heracli-tean flow of impermanence and at the same time immortal as ideal that flicker in his immortal soul. Viventi those portraits almost Flemish obtained literally photocopying the bewildered customers, those traps for the soul to whose i had a lucky escape same as a native escapes from the camera, Viventi was nothing else that the worldly counterpart of Misteri In Misteri, Coltro extracted a fragment of reality in order to bring it back to his transcendent origin, while in Viventi he documented the coexistence of the ideal face in the physiognomy of daily life. I pondered for some time on the amphibious nature of man hanging between earth and sky.The meeting of Davide and myself even if indeed was casual took place on the coordinates of this thought. As time went by. our friendship like an elastic band has revolved arpound this precise point flexing and distancing itself from the centre according to necessity. His curious and troubled experiences in life made me appreciating him for that ingenious and cunning, pragmatic and ideal, wise and Mephistophelean that make his multiform personality. Coltro -some lives ago, has been an inventor one of those who patented strange and incomprehensible mechanisms of unquestionable utility. Without doubts thiS attitude of him has been the cause of System those electronic pictures that not only follow the millenary walk of painting adapting it to the potential of our digital era but prefiguring new ways of contemplation. The perfect balance between art and tecnique is one of those peculiarity of the research of Coltro always intent on working on more sides, forerunning the future movements like chess-player with an eye for the real chessboard and one for an imaginary chessboard. To tell you the true I imagine Davide Coltro as a shrewd player of Backgammon,languidly lying on the bench of some turkish coffee bar while sipping his hundreth cup of mint tea fixed on pretending a sleepy abentmin-dedness only in order to suddenly jump on his adversary with the speed of a tiger. Thus i imagine him white taking one of his proverbial naps only ten minutes in order to regain his strenght and refresh himself more than once i heard him describe with the precision of a trailer the embryonic idea of a possible work, while imagining its potential developments, praising its wonders with ecstatic transport. From a System to a Mistero . From a landscape to a Vivente it is indeed possible that Davide allow himself a refreshing sleep full of higly imaginative and ambitious visions. Let him dream. I feel certain that those visions will be a reality quite soon! 

* From ‘Taccuini di Studio’