pas de trois
Pas de Trois – Marisa Vescovo
Viviamo in mezzo a profittatori incalliti di un’anticultura aumentata di pseudo-scienza, diffusa con cinismo nella distratta e affannata società d’oggi, che non ha abbastanza tempo, e voglia, per soppesare verità e menzogna, argomenti concreti e fandonie, e fa un doveroso melange tra bianco e nero, tra dimostrato e indimostrabile, fra realtà e fantasia, più o meno travestita. L’approdo è di un grigiore desolante, ma nel suo grembo prolifico, qualsiasi cosa, anche la più assurda e infondata, trova una giustificazione.
Nella nascita della società post-moderna un ruolo determinante è determinato dai mass-media e dalle nuove tecnologie; questi ultimi caratterizzano questa società non come una società trasparente, più consapevole di sé, più illuminata, ma, al contrario, come una società più complessa, persino caotica; tuttavia è proprio in questo relativo caos che risiedono, talora, le nostre speranze di emancipazione. È importante notare come buona parte dell’estetica moderna sia legata alla vita di questo nostro Novecento, che – come dice Mario Perniola -“conduce l’esperienza estetica al gioco, rifacendosi a Kant, quale aveva dimostrato la vicinanza tra il giudizio estetico e il gioco dei pensieri, ma soprattutto a Schiller, che aveva “cimentato con acutezza la funzione educatrice dell’istinto del gioco; la dimensione ludica è la manifestazione per eccellenza di “quella finalità senza la rappresentazione di un fine che costituisce l’essenza dell’esperienza artistica”.
In questo secolo impossibile troviamo l’esaltazione della vita intesa come genesi della creatività, e nello stesso tempo, di un desiderio ineludibile di libertà, una libertà che è sempre stata presente nel pensiero anarchico.
Freud stesso ha dimostrato che il contrario della vita non è la morte, e neppure l’inanimato, bensì la realtà: egi ha infatti chiarito come l’antagonismo tra le pulsioni vitali, ancorate nell’inconscio verso la soddisfazione del piacere (che è conoscenza), sia in netta contraddizione con le repressioni che ci vengono imposte dalla nostra contemporaneità, la quale boccia ciò che non è in accordo con la colpevole malinconia della società dello spettacolo. A partire da tutto questo molti artisti hanno iniziato a vedere nella vita presente una forza non sopprimibile, capace di vincere i lacci mortali del potere e l’oppressione delle pulsioni sessuali, considerando l’esplosione all’esterno dell’energia biopsichica come condizione della nostra salute mentale e della gioia dell’esistenza.
Il principale obiettivo dei movimenti che sono nati negli anni Sessanta è stato quello di creare un’opposizione alla mercificazione estetica, e su questo terreno lo sperimentalismo letterario, ottico-visivo, tecnologico, musicale, teatrale hanno trovato, storicamente, il loro punto di congiunzione. Il rapporto col mercato, è stato – ed è ancora – uno dei problemi cruciali della creatività non omologata, che si era allora presentata con tutto il suo peso, sconvolgendo spesso il delicato sistema di valori che essa tentava, con sottile intelligenza, di esprimere.
La mostra Pas de trois, allestita alla Gas Art Gallery e al Centre Culturel Francais (dove sono esposti progetti e opere), parte dalla precisa consapevolezza che il pericolo che mina la sopravvivenza dell’arte sia chiuso in quanto abbiamo sopra esposto e intende quindi portare in scena non artefatti conclusi, perché vuol essere essa stessa un processo cosmogonico in fieri, bensì opere che contengano il germe dell’apertura ad altro, così da prefigurare per noi un mondo diverso da quello esistente.
Oggi, negli ambienti più addomesticati, gran parte dei paesaggi naturali e architettonici sono soprattutto segnaletici, sonori, e li guardiamo come il triste risultato di artefatti umani. L’ibridazione è dunque una costante nella storia del genere umano e dell’arte, di solito espressa nell’ambito di un progetto, legato talora a considerazioni utilitaristiche, talora, invece, volta a opzioni ideologiche, umanitarie, e, infine, artistiche.
Se subìta, violenta, e troppo rapida, l’ibridazione, quando è culturale, si trasforma in deculturazione, perdita dei vecchi riferimenti, non sostituiti da altri.
Si tagliano così le connessioni vitali che, una volta perdute, “lasciano i singoli sprovvisti dei fondamentali meccanismi di protezione e, potremmo dire, di riproduzione della propria identità e del senso della propria appartenenza senza che nuovi dispositivi siano peraltro già operanti” (R. Beneduce). Forse lo sgomento che in alcuni suscita l’Idea di ibridazione – l’ibridazione normale è, al contrario, una strategia virtuosa di chi vuole esplorare nuove possibilità In ambienti evolutivi – nasce, in parte, dall’angoscia da Ibridazione con il non-organico, sempre più pervicacemente imposta a tutti coloro che vivono nei paesi ad alto sviluppo tecnologico.
Non è facile rispondere all’interrogativo sulla responsabilità morale che si è posto Hans Jonas, uno dei primi e più influenti pensatori della bioetica, portata in primo piano come la manifestazione più significativa del bisogno di ancorare le trasformazioni tecnico-scientifiche ai valori della condizione umana, di mantenerle radicate nell’ordine degli affetti e della sensibilità, e infine di suggerire che, più dell’adattamento, sono l’empatia, l’apertura all’altro, Il riconoscimento reciproco a sostenere il nostro rapporto con l’ambiente. In tali questioni sono in gioco valori ideali, orientamenti di fondo che coinvolgono da vicino molti artisti e pensatori, i quali chiedono di tornare a ripensare nel profondo i momenti fondamentali dell’essere e della vita, nella prospettiva di una partecipazione responsabile al proprio presente. Un altro importante aspetto che la mostra vorrebbe evidenziare è la tendenza dei tre artisti, definibile in senso lato post-umanistica, ad aprirsi a manipolazioni ibridanti tra organico e macchinico, rigettando quindi la dicotomia occidentale tra naturale e artificiale, mentre tutti e tre non rinunciano ad esercitare un ruolo attivo nell’arte, mettendo in scena il problema percettivo, il rapporto fondamentale occhio-cervello, senza il quale l’opera non avrebbe senso e presenza. Fogliati crede che l’ambiente di oggi abbia trasformato l’uomo in un cittadino terminale, che si sposta fisicamente solo con protesi-macchina, azzerando gli orizzonti dell’immaginario collettivo, la memoria dei luoghi del quotidiano, e creando confusione tra vicino e lontano, dentro e fuori. Tutto ciò dà il via a una metamorfosi, che, in questo alienante contesto, l’artista immagina come un Auditorium a rumore, un labirinto di luci, ambienti che, come spugne, assorbono il rumore della città e lo modificano armonicamente; pensa quindi di inserire nel paesaggio sculture sonore, dispositivi che trasformano i venti in sculture, magari da installare in cima alle colline, o, indifferentemente, sui grattacieli. Sculture non visibili ma fruibili tattilmente, tanto da sentirci accarezzati o massaggiati, senza vedere le mani di chi opera. L’Olimpo odierno di Fogliati è più fantasioso di quello mitico. Piero Gilardi (ottimo teorico del suo lavoro e di tutta questa fascia di esperienze) con la scultura elettronica multimediale Vitigno danzante (1989), l’installazione virtuale interattiva Biosphère (2002), e con Rigenerazione (2004), suggerisce come “le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi dell’era informatica rinnovano e ampliano il campo della creatività, sia dal punto di vista dell’espressività, che da quello della sua pratica sociale […] e le arti elettroniche accelerano l’assimilazione culturale dei nuovi codici comunicativi e dei saperi tecnico-scientifici che stanno cambiando la società”. Con Biosphère in particolare Mardi sottolinea come la bioetica sia oggi al centro della nostra vita e della nostra epoca: essa ci parla del fossato che si è scavato tra natura e mondo umano, dei limiti contro cui ci scontriamo quotidianamente con la nostra pretesa di controllare, e spesso modificare, gli equilibri naturali che riguardano cose e persone. Claude Faure, col suo profondo lavoro sulla parola, sul senso e sul suono, pone In evidenza come la voce segreta venga vanificata dalla voce diffusa, che annienta anche quella intima, quella della comunicazione diretta, sostituita dalla voce dell’Informazione, che ha ormai messo in angolo parole di preghiera, parole d’amore, parole d’amicizia, parole umane verso l’altro. In questo mare di chiacchiere alte e basse, o di vuoto Indaffarato, che causa un silenzio passivo attorno all’attività creatrice, solo il poeta e l’artista possono ridare, con un colpo di reni, un nuovo senso alla parola, farla tornare potente, fecondante, come peraltro avviene nell’opera interattiva di Faure La dérive des continents.
Nell’arte come in letteratura, esistono diversi generi di linguaggi, alcuni del quali si prestano meglio di altri a confrontarsi con determinati problemi. Anche il punto di vista può essere diverso. Per esempio si possono esprimere diverse tesi da un punto di vista unico, una tesi ben precisa da punti di vista diversi, o infine tesi divergenti, collegate tuttavia da punti di vista solo lievemente differenti, ma comunque interconnessi. In questa sede si è deciso di affrontare punti di vista dissimili – che comunque iniziano dal post-pop e dal concettualismo – ma interconnessi. In questo caso non credo sia possibile mettere tutte le carte in tavola alla fine del viaggio, per la ragione che esse non sono ancora state interamente giocate.
Questi artisti possono far uso dell’allegoria, della metafora, della prova scientifica, e di altro ancora, ma analogamente essi possono riassumere anche una grande varietà di pensiero: quello critico, quello ironico, quello persuasivo, quello profetico, ma sono sicuramente estranei a due atteggiamenti: quello del dogmatismo autocompiaciuto o della frivolezza autodivorante. Quel che è certo è che, in questa mostra, nessuno si pone il problema del recupero di una natura sacralizzata nella sua integrità, né di una esibita mitologia della corporeità, né, in ultimo, di una nuova alleanza tra scienza e pensiero; l’attenzione è focalizzata sul nuovo esercizio di sentire e sentirsi coinvolti in un’esperienza morale, in una messa in prova di una capacità medianica di percepire le cose, di guidare lo sguardo del fruitore, e, infine, di sentire il bene e il male, da qualsiasi prospettiva, o con molti obiettivi di coinvolgimento di una nuova sensibilità e intensità dei sensi, magari con un preciso interesse per le questioni della vita vissuta, e di quella che vorremmo ancora vivere in un prossimo futuro.
Rimangono tuttavia in noi una certa paura e insicurezza, indotte dal perenne stato di cambiamento, e dal suo ramo sempre più veloce e divorante.
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Pas de Trois – Marisa Vescovo
We live in a world of profiteers case-hardened by an anti-culture shrouded in pseudo-science, spread cynically in today’s frantic and distracted society that has neither time enough nor the desire to weigh up truth and falsehood, true reasoning and rubbish. A society that makes a pot pourri of black and white, of what can and what cannot be proved, of reality and fantasy, in whatever guise they might appear. The final landfall is distressingly drab, though in its prolific womb, anything – even the most absurd and most groundless – finds some sort of justification. In the creation of post-modern society, a determining role was indeed determined by the mass media and by new technologies. The latter failed to make society transparent – more aware of itself, more enlightened – but, on the contrary, it made it more complex, more chaotic. Even so, it is in this relative chaos that at times we can find our hopes for emancipation. It is important to note how much of modern aesthetics is bound up with the life of this twentieth century of ours. A century that, as Mario Perniola states, leads aesthetic experience back towards play, taking up Kant, who demonstrated the proximity of aesthetic judgment to the play of thoughts, but especially to Schiller, who cogently adduced arguments for the educational function of our instinct for play. Play is the clearest manifestation of “that purpose without the representation of an end that constitutes the essence of the artistic experience”. In this impossible century, we find the exaltation of life in the sense of the genesis of creativity, and at the same time of an ineluctable desire for freedom – a freedom that has always been present in the vision of anarchy. Freud himself said that the opposite of life is not death, nor even lifelessness, but reality: indeed he clarified how the antagonism between dynamic pulsions, secured within the unconscious towards the satisfaction of pleasure (which is consciousness) is in sharp contrast to the forms of repression that are imposed by our contemporaneity, for this rejects anything that is not in line with the guilty melancholy of our show-business society. Starting out from this point, many artists have begun to see an irrepressible power in our present life. One that is capable of defeating the mortal snares of power and the repression of sexual pulsions, considering the outward explosion of bio-psychic energy as a condition of our mental health and the joy of existence. The main objective of the movements that sprung up in the 1960s was to create opposition to aesthetic commercialisation, and it is here that, in historic terms, literary, optic-visual, technological, musical, and theatrical experimentalism found their point of conjunction. The relationship with the market was – and still is – one of the crucial problems of non-standardised creativity which was then presented in all its force, often totally upsetting the delicate system of values that it tried, with subtle intelligence, to express.
The Pas de Trois exhibition, put on by the Gas Art Gallery and the centre Culturel Francais, where projects and works are on display, starts out from a particular awareness that the danger that undermines the survival of art is closed, to the extent we have explained above, and thus does not intend to put terminated artefacts on stage. This is because it intends to be itself an ongoing cosmogonical project, and the works contain the seeds of an opening to otherness, adumbrating for us a world that is different from the one we know.
Today, in the tamest settings, many natural and architectural landscapes are more than anything indicative, resonant, and we look at them as the sad result of human creation. Hubridation is thus a constant in the history of humankind and of art. It is normally expressed within the orbit of a project, at times linked to utilitarian considerations, whereas at others it is oriented towards ideological, humanitarian and, lastly, artistic options. When imposed, violent and too rapid, hybridisation in its cultural form turns into deculturation, into the loss of former landmarks that have not been replaced by others.
Thus it is that vital connections are severed. And, once lost, they “leave Individuals devoid of those fundamental mechanisms of protection and, we might say, of the reproduction of their own identity and sense of belonging, without any new devices being already up and running” (R. Beneduce). Perhaps the dismay that some people feel about the idea of hybridisation – normal hybridisation is, on the contrary, the virtuous strategy of those who wish to explore new possibilities in advanced environments – comes partly from the distress of hybridisation with what is non organic, increasingly and pervicaciously imposed on all those who live in technologically advanced countries. It is not easy to respond to the question of moral responsibility posed by Hans Jones, one of the first and most influential thinkers in bioethics. This question came to the fore as the most significant manifestation of the need to anchor technical and scientific transformations to the values of the human condition, to maintain them rooted within our order of affection and sensitivity, and lastly to suggest that, more than adaptation, it is empathy, opening up to otherness, and mutual recognition that maintain our relationship with the environment. These matters bring into play ideal values and basic inclinations that closely involve many artists and thinkers – people who ask to get back to thinking closely about the fundamental moments of existence and of life, with a view to ensuring responsible participation in the present. Another important aspect that the exhibition highlights is the tendency of the three artists – who can be defined as post-humanist in the broadest sense – to open up to hybridising manipulations between what is organic and what is machinic, thus rejecting the Western dichotomy between natural and artificial. At the same time, none of the three fails to play an active role in art, bringing centre-stage the question of perception, that fundamental eye-brain relationship without which the work of art would have neither sense nor presence. Fogliati believes that today’s world has transformed man into a terminal citizen who moves physically only with the prosthesis-machine, zero-setting the horizons of popular imagination, the memory of everyday places, and creating confusion between near and far, between inside and out. All this sets in motion a metamorphosis that, in this alienating context, the artist imagines as the sound auditorium: a labyrinth of lights and environments that absorb the noise of the city like sponges, and then modify it harmoniously. He thus decides to insert sound sculptures into the landscape, devices that transform the wind into sculptures, possibly to be installed on hilltops or, indifferently, on skyscrapers. Sculptures that are not visible but that can be experienced by touch. So much so that we can feel caressed and massaged without seeing any hands on us. Fogliati’s modern-day Olypus is more imaginative than that of legend. With his multimedia electronic dancing-vine sculpture, Vitigno danzante, with his virtual interactive Biosphere installation of 2002, and with Rigenerazione (2004), Piero Gilardi (a superb theoretician of his work and of all this area of experiences) suggests how “the new technologies and new languages of the computer age renovate and expand the field of creativity, both from the point of view of expression and from that of its application in society […] and the electronic arts accelerate the cultural assimilation of new communication codes and of the technical and scientific knowledge that is changing our society”. With Biosphere in particular, Gilardi emphasises how bioethics le now at the heart of our lives and of our age: it tells us of the trench that has been dug between nature and mankind, of the limits against which we battle every day with our presumption to control and often modify the natural balances between things and people. Claude Faure, with his intense study of words, meanings and sounds, reveals how the secret voice is thwarted by that pervasive voice that annihilates even words of intimacy, those of direct communication, replacing them with the voice of Information. A voice that has now pushed aside words of prayer, words of love, words of friendship. Human, upward-striving words. In a sea of high and low gabble, of busy emptiness, that brings about passive silence all around the activity of creation, only the poet and artist can – with a twist of the back – restore new sense to words, making them powerful and fecund again, as is the case in Faure’s interactive La derive des continents.
In art, as in literature, there are various types of language, some of which are better suited to deal with certain types of problem. And the point of view can also be different. For example, different theses can be expressed from a single point of view, a very precise thesis from different points of view, or even diverging theses can be linked by only slightly different, yet interconnected points of view. Here it has been decided to contend with points of view that are dissimilar – even though they start from post-pop and from conceptualism – but Interconnected. In this case I do not think it is possible to show all one’s cards at the end of the journey, simply because they have not yet been played entirely. These artists may make use of allegory, of metaphor, of scientific proof or whatever, but similarly they can also recapitulate a vast variety of thoughts: critical, ironic, persuasive, prophetic… But they are certainly poles apart from two particular attitudes: that of complacent dogmatism, and that of self-devouring flippancy. What is certain Is that, in this exhibition, nobody poses the problem of attempting to retrieve a sacralized nature in its entirety, nor that of a displayed mythology of corporeality, nor even that of a new alliance between science and thought. Attention is focused on the new exercise of feeling and being involved in a moral experience, in a test of the mediumistic ability to perceive things, guiding the eyes of the beholder and, lastly, to feel good and evil, from any perspective and with many objectives to Involve the new form of sensitivity and intensity of the senses. Possibly with a specific interest in matters of life experienced, and of a life that we would like to experience in the near future. Even so, we still find ourselves with a sense of fear and Insecurity, induced by this perennial state of change. Brought on by its increasingly rapid and all-devouring rhythm.
Piero Gilardi: Nuovi poteri e doveri dell’uomo – Marisa Vescovo
Gli anni Sessanta hanno puntato il mirino del loro cannocchiale da un lato sulla progettualità dell’opera, dall’altro sull’utilizzo di materiali comuni, poveri. Entrambe le tendenze sono state precedute dall’assimilazione della pop-art, portandola però su un terreno tipicamente italiano, quindi associata ad un modello di immagine forte, come forte è stato il peso del nostro passato. Gilardi, con i suoi tappeti natura in gommapiuma dipinta, ha avviato una ricerca di un imitazione del naturale quasi maniacale, ma anche un’esperienza percettiva artificiale delle cose che ci circondano. In un secondo tempo l’artista mostra come il mondo della tecnologia si misceli ormai con il tutto, cosicché le sue piante cantanti, i suoi vitigni danzanti, si ammantano di luci, di suoni, di proiezioni, che danno vita ad un diverso spettacolo dell’universo. Il suo problema indubbiamente è di mettere in scena ciò che muta. Gilardi sa bene che bisogna mettere in scena il soggetto, che oggi si presenta come un soggetto terminale, cioè un soggetto che abbandona il nichilismo e si muove in quello spazio ultimo in cui si realizza un nuovo rapporto con gli altri, con la natura, con le idee, luoghi dove avvengono altri incroci di pensiero, ibridazioni improvvise di linguaggi. Linguaggi capaci di confrontarsi con iconografie invisibili, col caos del sociale, con mondi virtuali, ma che richiedono anche la diretta partecipazione del pubblico, chiamato a sperimentare l’interattività fisicamente. Nel 1985 Gilardi dà vita al progetto lxiana, presentato alla Villette di Parigi. Con la serie dei modelli di architetture etniche di General intellect (1998) i fruitori devono indossare sensori, scegliere musiche e immagini legate a diverse etnografie, e poi muoversi per scoprire un’immensa periferia, entrare in case legate a origini e culture diverse, vivendo o rivivendo in modo virtuale quello che in effetti oggi essi vivono nella realtà. Il lavoro di Gilardi, dopo aver sperimentato le possibilità semantiche delle realtà virtuali e del cyberspazio telecomunicativo, si è ora diretto verso le allettanti prospettive dell’ingegneria genetica e dei mutamenti
e culturali che ne derivano. È inoltre vero che le dottrine biogenetiche sono un banco di prova per le dottrine morali del presente ed è altrettanto vero che ogni epoca lui la sua metafisica particolare, ora rappresentata dalla bioetica, la quale permette, in una società smarrita nella frenesia del consumo e nella superficialità delle immagini, di porsi il problema della vita e della morte, del dolore e della cura delle piccole creature e di quelle più grandi, che poi siamo noi. Di fronte allo sviluppo delle scienze della vita e delle biotecnologie il ruolo della morale non può essere quello di un supplemento d’anima, o di un’autorità normativa: in realtà ci troviamo davanti ad un compito di comprensione in gran parte imprevisto. Eppure assistiamo ad un predominio di un discorso sui temi della bioetica tutto giocato su parole dal forte contenuto simbolico ed emotivo e in cui sono in battaglia, senza dichiararsi, ideologie e utopie.
L’installazIone virtuale interattiva Biosphère ci dice che la biologia non comprende solo il mondo della natura, ma anche la seconda natura, ovvero la dimensione della nostra artificialità: i circuiti informatici al silicio, infatti, sono viventi come la materialità, organica e minerale, dei corpi. In questo caso le persone che assistono all’evento trovano davanti a sé, sul pavimento, uno schermo rotondo e una cabina. Dice Gilardi: “una singola persona entra nella cabina, si siede davanti ad una vasca di sabbia e può modellare un “paesaggio” nella sabbia stessa, così facendo realizza un’immagine in computer grafica che costituisce il segno personale e che viene trasmessa all’interno dell’immagine dello schermo, inserendosi nel tessuto degli altri segni individuali, rotondi, prodotti in precedenza… Anche le altre persone presenti possono interagire premendo con un piede su tavolette sensibili”.
Ma rinnovarsi sullo schermo di intensità, di colori dei corpi, dice che si tratta di una fisica che esprime solo rapporti causali, ma esprime anche emozioni, intenzioni, motivazioni, e innanzitutto il riconoscimento dell’esistenza degli altri, nonchè l’aspirazione a una compiutezza e a una verità dell’esistenza.
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Piero Gilardi: the new powers and duties of man
In the 1960s in Italy there was focus on the one hand on the planning characteristics of artistic works and, on the other, on the use of humble, commonplace materials. Both trends were preceded by the assimilation of Pop Art, transposing it however onto a typically Italian terrain, and thus associating it with the model of an overbearing image -just as the weight of our past is overbearing.
With his tappeti natura – nature carpets in painted foam rubber – Gilardi started up his almost manic imitation of the natural world, but one that is also an artificial perceptive experience of the things that surround us. Later on, the artist showed how the world of technology at this point mixes in with all, so that his singing plants and dancing vines are wreathed in light, in sounds and projections that give rise to a different view of the universe. His problem is undoubtedly that of staging something that is undergoing transformation. Gilardi is well aware that it is necessary to present a subject.
One that today appears as a terminal subject, one that abandons nihilism and moves in the ultimate space in which new relationships are formed with others, with nature, with ideas and places where other encounters of thoughts take place along with unheralded hybridisations of languages.
These are languages capable of tackling indivisible iconographies with the chaos of society and with virtual worlds, yet that require the direct participation of the public in order to physically experiment interactivity. In 1985 Gilardi ushered in the Ixiana project that was presented at the Villette in Paris. With his series of models of ethnic architecture in General intellect (1998), the users need to wear sensors, choosing music and images linked to different ethnographies, and then moving around to discover an immense suburb, entering houses related to different origins and cultures, living virtually what they actually live today in reality.
After experimenting the semantic possibilities of virtual realities and of telecommunicational cyberspace, Gilardi’s work is now focused on the beguiling prospects of genetic engineering and the social and cultural changes it entails. It is also true that biogenetic doctrines are a test bench for the moral doctrines of today.
And it is equally true that each age has its own particular metaphysics. Today this is bioethics, which makes it possible – in a society that has lost its way in a frenzy of consumption and in the superficiality of its images -to pose itself every now and then the problem of life and of death, of pain and of looking after creatures great and small. Looking after ourselves, in other words. In the face of the development of the life sciences and biotechnologies, the role of morals cannot be that of a supplement of the soul, or of a regulatory authority, for in actual fact we find ourselves facing a task of comprehension that is largely unforeseen.
And yet we are witnessing the supremacy of a disquisition on the subject of bioethics that is entirely played out with words pervaded by powerful symbolic and emotional overtones, and in which -without revealing themselves for what they are – ideologies and utopias do battle. The virtual interactive Biosphere installation tells us that biology does not include only the world of nature, but also second nature – which is to say the dimension of our superficiality. For indeed, computer circuits in silicon are as alive as the organic and mineral materiality of our bodies. In this case, people watching the event see a cabin and a round screen on the floor in front of them. Says Gilardi: “A single person enters the cabin and sits down in front of a sandpit. They can sculpt a landscape in the sand, and by doing so create a computer-graphic image that constitutes their personal sign. This is transmitted in the image on the screen, entering the network of other individual, round signs made previously… Also the other people present can interact by pressing with their feet on sensitive boards.”
But the continual refreshing of the intensity, movement and colours of the bodies on the screen shows that this is a physics that does not just express accidental relationships, but instead expresses emotions, intentions, motives and, primarily, recognition of the existence of others.
As well as an aspiration to fullness and to the truth of existence.
Piero Fogliati : l’iconauta – Marisa Vescovo
Il lavoro di Piero Fogliati – dagli anni Sessanta ad oggi- è riconducibile a quel filo rosso della sua ricerca che si identifica nella Città Fantastica (potrebbe anche essere Torino, oppure una qualsiasi città del mondo), segno pulsante di un’utopia magica, e, per ora, forse impossibile, che è tutta racchiusa nelle opere legate alla luce, legate al suono, e in tutto il corpus dei sensazionali e visionari disegni (visibili al Centre Cultural Francais). Il disegno è infatti per Fogliati un mano vitale per fissare, in un lampo di immagine figurativa, l’essudazione di un’immagine visionaria, rielaborata a più riprese e risolta in sintesi di pensiero e di forma. Darà poi vita all’opera tridimensionale, un mezzo trasparente per mostrare i suoi processi mentali, che si inverano in toto nelle sue ricerche poetico-estetiche. Sono molte le opere che, in questa esemplificano il lungo e intenso lavoro sul tema della luce, che comunque inerisce sempre al progetto dello spazio vivente della città. Opere come lo Svolazzatore Cromoctinglante (1967), Prisma Meccanico (1967), Reale Virtuale (1993), ci mostrano come la luce, nel suo acromatico splendore, esprima l’allontanamento, il suo distanziarsi dalla grave materialità della terra; il colore segna invece l’avvicinamento, la ridiscesa verso l’umano, cui variabile gamma affettiva si fa espressione e simbolo. E talora sia la luce che il colore sembrano però voler evadere dalle griglie ordinatrici della scienza. Se la luce è castità, e implica l’elevazione come distacco a lontananza – una sorta di oltremondo -, il colore è invece sensualità, coinvolgimento e contaminazione. Lo Svolazzatore, ad esempio, ci dà la misura degli esiti molto raggiunti dall’artista: abbiamo infatti la sensazione di veder volare meravigliose farfalle, radiose di colore, che si inseguono come falene innamorate di una lampada. Anche le ampolle da alchimista di Reale Virtuale, per mezzo della luce bianchissima che attraversa il vetro, vivono il raddoppiamento virtuale della piccola elica sospesa all’interno. L’immagine che nasce ci conduce verso una riflessione mistico poetica, per cui il divenire interiore rispecchia il nostro vedere interiore.
La luce di Fogliati è soprattutto vitalità, un alone magnetico, un dato fisico, un elemento spirituale soggettivizzato, una condizione atmosferica in ebollizione, una condizionepercettiva inalienabile, senza la quale non esisterebbe nemmeno l’opera. Altri lavori come Latomie (1968), Ermeneuti(1968), Dittero a una chela, (1995), Euritmie evoluenti (1970), Fleximofoni (1967), ci propongono Fogliati come il messaggero (e non possiamo non ricordare la lezione di Cage) dell’opera che possiede una voce-suono, ma, allo stesso tempo, anche come esegeta dell’anti-musica o musica liquida, liberazione di lutto quanto essa aveva eliminato in quanto scoria e impurità. In particolare del Liquimofono l’artista ha scritto: “è l’unico strumento che offre una timbrica manovrabile e utilizzabile come un basso continuo. I risonatori sono tutti in alpacca curvata e saldata a stagno con diverse tonalità date dalla forma e dal liquido inseriti nell’interno”. Ci permette dunque l’ascolto di un linguaggio sconosciuto, portatore di un messaggio che viene da lontano, mentre il silenzio che intervalla questi suoni si trasforma in un silenzio musicale. Le opere di Fogliati sono concepite come strumenti/macchina – oggetti senza una loro identità estetica forte, ma in compenso nemmeno casuali, perchè costruiti dall’autore, con grande passione, pezzo per pezzo, dalla vite all’interruttore – dai quali fuoriescono fasci luminosi di grande fascino, oppure suoni, che sollecitano a esplorare la molteplicità delle relazioni che si possono recepire captando sia il loro flusso virtuale che vitale. Esse sono però, prima di tutto, uno spazio di scorrimento veloce che dalla memoria del vissuto dell’artista si proietta verso il progetto dello spazio pulsante e caotico della metropoli della sua fantasia, ancora indomita, ma in virtù della quale passato e futuro rompono le barriere che li dividono, e fluiscono intrecciati dentro e oltre il presente.
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Piero Fogliati : the iconaut – Marisa Vescovo
All Piero Fogliati’s work – from the 1960s through to the present day – can be traced back to the fantastic city, the guiding thread that runs through his studies. The city could be Turin, or indeed any other city in the world, the pulsating sign of a magic, though for the moment maybe impossible utopia. It is entirely bound up in his works related to light, in those related to sound and in the entire corpus of his sensational and visionary drawings, which in this case can be seen at the Centre Culturel Francais.
For Fogliati, drawings are a vital means to fasten the bleeding of a visionary vision in the flash of a figurative image. One that, when re-elaborated a number of times and resolved in a synthesis of thought and form, will go on to infuse life into a three-dimensional work. One that is thus a transparent means to display his mental processes as they take concrete and complete form in his poetic-aesthetic studies. There are several works in the gallery that illustrate his long and intense work on the subject of light, always pertaining to the project of the city’s hying space. Works like Svolazzatore cromocangiante (1967), Prisma meccanico (1967), and Reale virtuale (1993) clearly show us that, in its achromatic splendour, light expresses estrangement, and a departure from the burdensome materiality of the earth, while colour denotes approach, the re-descent towards what is human. Becoming the expression and symbol of man’s fickle range of affections. And yet at times both light and colour appear to escape from the regulatory grids of science. While light is chastity, and implies elevation in the form of detachment and distance beyond the world, colour on the contrary is sensuousness, involvement and contamination.
The fluttering Svolazzatore, for example, gives us a measure of the highly poetic results achieved by the artist, and indeed we truly feel we are watching gorgeous butterflies radiating colour, chasing each other like moths enamoured of a lamp. Also the alchemist’s crucibles of Reale virtuale, by means of the purest white light shining through the glass, experience the virtual duplication of the little spiral suspended inside. The image it creates leads us towards a mystic-poetic reflection, in which the interior becoming reflects our interior ability to see. More than anything, Fogliati’s light is vitality, a magnetic halo, a physical verity, a subjectivised spiritual condition, a boiling atmospheric state, an inalienable perceptive position without which the work could not even exist. In other works, such as Latomie (1968), Ermeneuti (1968), Dittero a una chela, (1995), Euritmie evoluenti (1970), and Fleximofoni (1967), we see Fogliati as a messenger (and we could hardly fail here to recall the lesson of Cage) conveying a work that possesses a voice-sound, but at the same time we also find him as the exegete of anti-music or liquid music, and the liberation of everything it had liberated in so much as it was waste and impurity. In particular, the artist had this to say about the Liquimofono: “It’s the only instrument that offers a manoeuvrable timbre that can be used as a thorough-bass. The resonators are all in curved weld-sealed nickel silver with various tones given by the shape and by the liquid they contain.” Fogliati thus lets us listen to an unknown language that brings us a message from afar, while the silence that breaks in between the sounds is transformed into a musical silence. Fogliati’s works are conceived as instrument machine-objects without a powerful aesthetic identity of their own, yet they are by no means accidental for they are built piece by piece by their creator with great passion – from the screws to the switch – and from them highly evocative beams of light shine forth, or sounds are emitted, but they always invite us to explore the multiplicity of the relationships that can be experienced by capturing both their virtual and their vital flow of energy.
And, more than anything, they are an area of rapid flow which is projected from the memory of the artist’s experience towards the pulsating and chaotic space of the metropolises of his still untamed imagination. Yet it is by virtue of this that past and future break down the barriers dividing them and flow off intertwined into and beyond the present.
Claude Faure : il luogo della parola come senso e forma – Marisa Vescovo
Paradossalmente chi usa intensivamente la parola, come Claude Faure – artista che è partito negli anni Settanta da un concettualismo che evidenziava il valore metaforico e ideologico dei segni – permette che essa ridiventi chiara, leggera, sottolinei i mali della vita senza calcarvi la mano, e diventi, infine, un continuo intreccio di sapienza e stuporosa meraviglia, affondando le radici in quell’umore del profondo che essa porta alla luce della ragione per poi gettarselo alle spalle, esplodendo, contraendosi, diventando un’icona carica di gioco, o, addirittura, creando con se stessa un gioco carico di doppi sensi o addirittura divertendosi a cambiarli. Si possono notare, nella mostra Pas de trois, opere che si legano a significati polivalenti, insieme figurali, verbali, fonetici, per una rappresentazione di un mondo senza centro, premessa necessaria per un pensiero che vuole restare ad ogni costo in presa diretta con la realtà (si pensi ad un opera come Kosovo costruita con timbri su cui è stampigliata la parola urgent, oppure Nous ne sommes pas grand chose, una tela corredata da una lente per leggere, o ancora Opera aperta, una superficie completamente traforata). In questo caso occorre porsi davanti alla scrittura nel tempo rallentato dell’ascolto e della visione, cosicché, dopo l’abuso che abbiamo fatto della parola diffusa, essa ridiventi come nuova, restituita per una volta alla sua origine, e accenda il fuoco dei segni sensoriali e dei loro enigmi. Con l’opera Chaos – un barattolo di vetro pieno di pasta piccola che rappresenta delle lettere dell’alfabeto – Faure propone, nella pratica, il gioco delle lettere-materia che creano una battaglia con la realtà – pasta e le sue valenze: possiamo così constatare che, in fondo, la pittura esiste ovunque, basta cercarla con voluto disincanto. Anche le svariate carte geografiche si presentano cariche di segni topografici che vengono sconvolti da un uragano che si diverte, con metodo, a portare verso un lato gli agglomerati urbani, per dare vita un’unica infinita megalopoli, mentre le zone verdi e i mari si raccolgono verso l’altro a formare un ipotetico paesaggio pittorico. In fondo Faure mette in atto anche qui una arbitraria geometrizzazione della topografia. L’artista, in definitiva, sottolinea lo straordinario contributo della parola a fare figurazione e storia, poiché, aprendo la possibilità di legare il figurato e la figura, dona visibilità alla rappresentazione rende possibile il ritorno alle fonti sia sensoriali, che concettuali, della rappresentazione.
Nel lavoro di Faure troviamo parole che si formano in una mente che ha compreso in profondità il messaggio “altro”, aI di là del detto: esse si ammantano di una specie di alone che contiene anche il nostro non detto. La parola che nasce della reverie, che non rinuncia a significare, ma riverbera anche, evoca e rievoca emozioni-sensazioni-corporeità.
Con l’opera interattiva La derive des continents, ovvero deriva della parola scritta, la parola viene ordinata sullo schermo in un continente arabescante di termini linguistici, che, allocati, si rivelano un corpo lessicale che si anima, diventa Immagine vivente, forma alla ricerca di un senso e di un suo humour astratto, surreale, ininterrotto, che noi stessi possiamo richiamare e vedere danzare e trasformarsi, secondo una logica precisa quanto ironica: un termine come ZOOM diventa un’immagine che si avvicina e si allontana, mentre la parola FRANKLIN si trasforma nel suo “altro Allegorico” cioè in un parafulmine.
Su questo lavoro Faure stesso dice: “Pour aborder ce travail sur le mots imprimés, l’hyperreprésentance, concept défini par Jean Ricardou, fournit un assez bon fil conducteur. En schématisant, on peut dire qu’ily a hyperreprésentance lorsque la forme d’un mot redouble en quelque manière en son sens. Par exemple, le mot « bref » est lui-mème bref. À partir du moment où j’ai pris une conscience plus claire de ce phénomène, je me suis appliqué à rassembler des locutions significatives”.
Forse tutto questo ci dice che esiste una insufficienza del linguaggio rispetto alla vita, in quanto, talora, la parola stessa mostra una forte autosufficienza rispetto alla realtà. Dice M. Cacciari: “Nello sprofondarsi nel segno in quanto tale, si compie la dissacrazione del significato”.
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